Sono finalmente finite le vacanze, le sembrerò un marziano ma per me sono sempre state un incubo, i punti di riferimento che scompaiono,il caldo insopportabile, io, durante questo mese Agosto ho oscillato sempre tra ansia e depressione. Forse anche il fatto che tutto si ferma ,io che lavoro dalla mattina alla sera e le dirò di più anche nei giorni festivi e spesso di notte,lei mi catalogherebbe tra i cosiddetti iperattivi.Le mie relazioni sociali al di fuori del lavoro sono inconsistenti ma ho difficoltà a legare anche con i miei colleghi che mi sembrano spesso dei fannulloni e mi suscitano, nella loro inerzia, una rabbia che trattengo , a volte, a fatica. Ho fatto anche, durante questo mese, un breve periodo fuori città con mia moglie e i due figli, ormai grandi, e devo dirle che ho sofferto di una vera e propria claustrofobia, tutti ammassati in due camere quando normalmente ci vediamo la sera per poche ore,tra chi studia e chi lavora. Mi vergogno un pò, ma devo dirle che mi sono portato anche del lavoro in vacanza. A questo punto devo pensare che il lavoro per me sia una specie di salvagente,che per me conti solo l´essere efficiente e che la mia capacità lavorativa sia riconosciuta . Nei momenti di passività più nera in questo mese mi sono venute in mente anche idee di morte, ho pensato che sono vecchio (a 43 anni!), che quello che ho fatto ormai ho fatto , mi è capitato spesso in questo mese di guardare con ansia al mattino la cronaca nera sui giornali e di aver paura paura che, prima o poi, potesse toccare anche a me qualcosa di molto doloroso. Finalmente sta arrivando settembre e ogni cosa riprende il suo posto,vedo le persone tornare al lavoro sgomente e penso a come siamo diversi noi esseri umani. Lei capisce però che vorrei sistemare il problema alla radice e riuscire a godermi anche le pause, lei che idea si è fatto?
L´attività lavorativa, può diventare una dipendenza quando non ha più una funzione di sopravvivenza, ma aiuta a superare mancanze esistenziali e problemi familiari. Si parla così work addiction (o workaholism), cioè la dipendenza da lavoro che appartiene alla categoria delle dipendenze non legate a sostanze e per questo, spesso le viene data meno importanza. Tuttavia, non sempre il “tanto lavoro” ed il “piacere nel lavoro”, possono essere definiti come dipendenza. Il passaggio da un comportamento normale ad uno compulsivo patologico, è progressivo. Inizialmente la persona inizia a lavorare di nascosto, nel tempo libero lavora o legge materiale riguardante il lavoro e lo stile di vita diventa frettoloso. Pensa solo al lavoro, trascurando la famiglia ed altri interessi.Subentra progressivamente una fase critica caratterizzata da abuso ed assuefazione. La persona, non smette più di lavorare, trova scuse per giustificare la sua eccessiva attività, accumula lavoro e si sente inutile se non è sotto pressione. Essere commiserato dagli altri a causa del tanto lavoro, fa diminuire i sensi di colpa e rafforza l´autostima, aumenta un comportamento aggressivo e impaziente verso i colleghi di lavoro e vi è possibile presenza di sintomatologia nevrotica. A livello psicodinamico sembra di scorgere in lei un orientamento narcisistico spiccato del rapporto oggettuale con inmportanti contributi autovalutativi che derivano da riconoscimenti e gratificazioni nell´ambito professionale e una necessità coattiva di iperattività per tenere sotto controllo le angosce di morte.I rapporti familiari non sono in grado di innescarle valenze progettuali migliorative (in molti casi i figli hanno questo potere)e questo è il motivo per cui lei ha necessità di mantenersi in contatto con la dimensione lavorativa unica in grado di essere corroborativa a livello energetico e vitale. Ora le dirò qualcosa sui mali della attuale società. Nella nostra società secolarizzata e fortemente edonistica la rimozione della morte è un tema costante. Non è sufficiente un tranquillo benessere, abbiamo bisogno di stati mentali eccitati e concitati. I desideri debbono essere subito soddisfatti, si è smarrita la capacità di darsi un limite ed ecco allora echeggiare nella nostra mente come monito la frase di Aristotele “chi non conosce il suo limite tema il suo destino”. Non esiste più intrapsichicamente il rapporto conflittuale tra ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare, ma la tensione interna è fra ciò che si è capaci di fare e ciò che non riusciamo a fare . Ogni iniziativa umana è parametrata sul successo che può ottenere e dove non vi è successo vi è depressione come percezione del proprio fallimento esistenziale. Credo che sia importante, per lei attraverso un profondo lavoro psicoanalitico perciò ricercare stati mentali più rallentati e pacificati,dando ampio spazio ad una riflessione profonda e consapevole, intrisa di una ritmicità lenta e non frenetica, non facendosi sedurre dalla iperattività e dalle sirene dell’agire in modo concitato,ma riassaporando l’otium , la trance, la meditazione, l’arte della contemplazione, lasciandoci cullare dalla dilatazione del tempo e dello spazio . Soprattutto è importante coltivare il rapporto con i nostri simili, ricercando spazi di sessualità sublimata, attraverso la amicizia, la empatia, la comunicazione, abbandonando gli egocentrismi e gli arrivismi con le connesse brame di espansione e di profitto che ci fanno scontrare con la miseria e la caducità del nostro essere. Le relazioni devono essere privilegiate rispetto al reddito, perché la solitudine e la mancanza di legami sociali hanno molta più influenza sul benessere di quanto non faccia la situazione economica, fatte naturalmente salve le condizioni di estrema indigenza. Ciò forse non ci conduce alla felicità ma rappresenta la creazione di una struttura anticorpale capace di tutelarci dalla depressione e di conferire serenità e dolcezza alla nostra esistenza.