Gentile dottore, ho letto la lettera che le ha scritto il professionista di 56 anni e anche io mi trovo in una situazione psicologica similare. Vorrei conoscere però una sua opinione sul tema della felicità di cui tanto si parla. Lei pensa che sia qualcosa di perseguibile, se non per brevissimi momenti nella vita, oppure se una esistenza, anche soddisfacente , debba giocoforza contare su sentimenti attenuati, tipo assenza importante di affanni dolori dispiaceri…. Arrivati alla mia età, può essere considerato un buon traguardo vivere una serena accettazione della mortalità umana senza che la vita si sia rivelata poi quel granchè di cui spesso si sente parlare?
La sua lettera è particolarmente idonea a sollecitare l’interrogativo su ciò che normalmente si intende per felicità perché credo che, semanticamente a questo termine vengono dati significati non univoci. Alcuni intendono riferirsi ad uno stato di ebbrezza o estasi, altri ad una situazione di benessere relativamente aconflittuale, chi lo assimila alla sicurezza, chi ad uno stato assenza di dispiacere e potremmo citare infinite sensazioni a cui si riferiscono gli esseri umani, al punto tale che ci viene da pensare che del concetto di felicità esiste un’idea spiccatamente individuale. Se, comunque, vogliamo cercare di comprendere meglio possiamo ipotizzare che venga rubricato o come stato mentale di tipo estatico inebriante con caratteristiche di tipo onirico, contrassegnato però dalla caducità o temporaneità o come stato di tranquilla sicurezza priva di affanni la quale può abitare la nostra mente per un tempo prevedibilmente più lungo. Nella prima accezione dobbiamo appunto riconoscere la estrema transitorietà di questi stati mentali e la loro assoluta episodicità nel corso della esistenza.. Dall’analisi dell’inconscio sembra poter dedurre che questi vissuti sono la riproduzione di stati mentali sperimentati nei primi mesi di vita, durante il rapporto simbiotico con la madre in cui il piccolo sperimenta una indifferenziazione tra il sé e il mondo esterno e viene percepito quel “sentimento oceanico” di cui parla il poeta Romain Rolland.. Sono quelle sensazioni che hanno un ricollegamento mitologico nelle varie culture, per esempio nel Simposio di Platone , ove Zeus fa dell’uomo un lacerato sempre anelante a ricongiungersi con l’altro per vivere in esso la sua metà nascosta e divisa . Tutti noi aneliamo all’unità, aspiriamo a rivivere e a soddisfare quella che viene percepita come beatitudine e onnipotenza.del sé, quello stato di completezza, quel sentimento fusionale che ci accompagnerà,nostalgicamente, per tutta l’esistenza: vengono in mente situazioni di innamoramento o di passionalità, momenti di compenetrazione orgasmica o gli stati mentali di una madre connessi al momento procreativo :hanno la caratteristica tutti di avere una durata più o meno breve anche se sono caratterizzati da una intensità psichica decisamente notevole, e li potremmo inquadrare come momenti di assaggio dell’immortalità. Se questo è ciò che intendiamo con felicità allora, data la estrema rarità con cui essa si presenta, possiamo dire che, fondamentalmente, la felicità non abita questo mondo. Il problema che abbiamo noi umani deriva proprio da quella stessa evoluzione psichica che ha permesso i progressi dell’umanità. La nostra autocoscienza, cioè la capacità di pensare il nostro pensiero è quella che, da una parte ci apre al senso ma che contemporaneamente è il luogo dell’implosione di ogni senso . Non possiamo essere felici come invece lo può essere un animale che dimostra beatitudine nel mangiare, dormire, saltare . L’autoconsapevolezza che porta con sè la coscienza della nostra finitezza, si scontra con il nostro desiderio perenne di immortalità ed è la radice della infelicità umana. Il problema della angoscia esistenziale è comunque un tema già profondamente sentito dagli antichi Greci i quali , come dice Nietzsche, hanno avuto il coraggio di “guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e l’atrocità dell’esistenza”. Essi hanno percepito la tragicità dell’esistenza nella contrapposizione tra le esigenze della natura e le aspirazioni del singolo. Le leggi di natura dicono infatti che ogni singola esistenza deve morire affinché si generino nuove vite, le quali prendono il posto delle precedenti in una circolarità della vita e della morte. Il singolo invece grida ad alta voce la sua voglia di vivere e rifiuta questo passaggio di testimone. Il Greco elabora risposte attive alla ineluttabilità della morte, sostenendo che non bisogna illudersi e nemmeno rassegnarsi ma conoscere (màthesis)perché il sapere evita il male evitabile.Il concetto greco di “aretè” che è l’equivalente della “virtus” latina esprime infatti la capacità di eccellere, di essere il migliore,però vivendo e conoscendo il proprio limite (katà mètron), cioè con atteggiamento di saggezza (phrònesis). Gnothi seauton, conosci te stesso, è scritto sul tempio di Delfi, conosci le tue caratteristiche, la tua inclinazione, il tuo demone e arriverai alla eudaimonia che in greco significa felicità , che vedrei più propriamente assimilabile alla pace illuminata dal benessere . La scuola stoica sosteneva che il dolore è legato alle passioni e il loro motto substine ed abstine è un invito a sopportare l´intolleranza, frutto di passione altrui e ad astenersi dall´intemperanza, frutto della propria passione, facendo prevalere la razionalità , . Gli stoici sono assertori delle virtù dell´autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all´estremo nell´ideale dell´atarassia, come mezzi per raggiungere l´integrità morale e intellettuale. Nell´ideale stoico, è il dominio sulle passioni che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. La filosofia buddista sostiene analogamente che il dolore è un vuoto, una mancanza che porta alla ricerca della soddisfazione di desideri di ciò che è provvisorio, che è continua ed ininterrotta poichè appena un desiderio è soddisfatto ne nasce uno nuovo,ancora più grande in un susseguirsi senza sosta per cui rinunciare ai desideri significa rinunciare a una inutile sofferenza. Quindi solo quando avremo abbandonato gli attaccamenti per cose e persone, scompariranno ansie, angosce, depressioni e tutti i sentimenti spiacevoli che la nostra entità psicosomatica può produrre e sarà possibile sperimentare l´emancipazione dalla sofferenza esistenziale. Per raggiungere l’obiettivo molto importante è per il buddista dedicarsi alla Meditazione, che comporta un´energica disciplina ascetica (yoga) : in questo caso il rimedio non consiste in una sollecitazione verso la razionalità o l’autocontrollo, ma nella soddisfazione della pulsione erotica all’interno del sé con un riscatto dell’onnipotenza originaria preoggettuale e fusionale. La visione Giudaico- Cristiana ripropone la cultura dell’onnipotenza- felicità la quale, essa sostiene, non può essere raggiunta in questo mondo ma può essere tuttavia raggiunta in un’altra dimensione. Viene svalutata la vita terrena sostenendo che essa è un transito,che il piacere è un bene effimero, che il dolore non è una condizione imprescindibile della esistenza, che esso è dovuto alla colpa del peccato originale da cui è possibile redimersi, che è anzi utile a fini espiativi,che è il fattore più potente che induce alla speranza e alla fede, che la vita futura, la vera vita, sarà senza dolore. La Psicoanalisi con Freud in sintonia con gli assunti filosofici dell’epoca, prima illuministi poi positivisti, riprende il tema della ragione come unico strumento per esplorare l’inconscio, per bonificarlo, sottraendoci così al dolore che deriva soprattutto dalla ignoranza delle parti nascoste del nostro sé.”Dove era l’Es deve subentrare l’Io”. Di nuovo è ripreso il tema , del nosce te ipsum conosci te stesso.Una volta assoggettato all’io, il nostro inconscio non potrà essere più fonte di dolore o sofferenza . Il punto è probabilmente questo, che esiste un disagio ineliminabile nel vivere per il fatto stesso che la vita conduce alla morte, e che, come dice Freud, vivere significa, in fondo, accettare di morire lentamente. Vediamo come, anche in questo caso, la fiducia nel predominio della ragione esclude il raggiungimento della felicità in quanto anche la presenza di un Io lucido, consapevole, capace di sottrarre gran parte dei territori all’inconscio, può portare l’essere umano soltanto alla normalità esistenziale scevra di speranze ultraterrene.Il problema che si pone in questo caso è quanto una esplorazione soddisfacente dell’inconscio permetta all’io una capacità deliberativa libera prima negata dall’inconsapevolezza oppure se continuino ad essere le pulsioni, anche se disvelate, a guidare l’io. Nella nostra società secolarizzata e fortemente edonistica la rimozione della morte è un tema costante, gli individui, costantemente accelerati, hanno perso la capacità di accettare le frustrazioni, dimenticando quanto esse siano un potente motore di crescita individuale. Non è sufficiente un tranquillo benessere, abbiamo bisogno di stati mentali eccitati e concitati. I desideri debbono essere subito soddisfatti, si è smarrita la capacità di darsi un limite ed ecco allora echeggiare nella nostra mente come monito la frase di Aristotele “chi non conosce il suo limite tema il suo destino”. Non esiste più intrapsichicamente il rapporto conflittuale tra ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare, ma la tensione interna è fra ciò che si è capaci di fare e ciò che non riusciamo a fare . Ogni iniziativa umana è parametrata sul successo che può ottenere e dove non vi è successo vi è depressione come percezione del proprio fallimento esistenziale. E’ possibile pensare che l’ abuso odierno di psicofarmaci non sia dovuto niente altro che al tentativo dell´ essere umano di robottizzare la propria psiche,eliminando, o perlomeno riducendo, la percezione del vacuum e della angoscia per la propria mortalità, del senso di inutilità del vivere, creando stati mentali di esaltazione ed accelerazione psichica durante le ore lavorative con farmaci attivanti ,in genere serotoninergici,smorzati e anestetizzati spesso da rilassanti ,in genere benzodiazepine, in quelle poche ore dedicate al riposo notturno che deve essere scevro di ansie affinchè, il giorno seguente, possa essere ripristinato il ritmo lavorativo con rinnovato vigore, cioè non indebolito nè inquinato da problematiche di stanchezza per un riposo non adeguato. Credo che sia importante perciò ricercare stai mentali più rallentati e pacificati,dando dare ampio spazio ad una riflessione profonda e consapevole, intrisa di una ritmicità lenta e non frenetica, non facendosi sedurre dalla iperattività e dalle sirene dell’agire in modo concitato,ma riassaporando l’otium , la trance, la meditazione, l’arte della contemplazione, lasciandoci cullare dalla dilatazione del tempo e dello spazio . Soprattutto è importante coltivare il rapporto con i nostri simili, ricercando spazi di sessualità sublimata, attraverso la amicizia, la empatia, la comunicazione, abbandonando gli egocentrismi e gli arrivismi con le connesse brame di espansione e di profitto che ci fanno scontrare con la miseria e la caducità del nostro essere. Le relazioni devono essere privilegiate rispetto al reddito, perché la solitudine e la mancanza di legami sociali hanno molta più influenza sul benessere di quanto non faccia la situazione economica, fatte naturalmente salve le condizioni di estrema indigenza. Ciò forse non ci conduce alla felicità ma rappresenta la creazione di una struttura anticorpale capace di tutelarci dalla depressione e di conferire serenità e dolcezza alla nostra esistenza. Da quanto detto vediamo, in conclusione, che sembra utopico pensare che la felicità o anche il semplice benessere dei cittadini possa essere, come viene sostenuto da più parti , un problema dei politici o degli economisti, perché è un sentimento che sgorga dalla propria soggettività e anche il capitalismo con la sua aspirazione edonistica non è in grado di garantirlo, perché esso può soltanto inneggiare alla strategia di un accumulo ed incremento dei beni senza significato che, essendo profondamente legata all’efficienza, ci fa scontrare con il trascorrere del tempo, dandoci il senso della inutilità e della caducità mortale dell’esistenza